CAMERA FUTURES | Intervista a Marina Caneve
Talenti emergenti della fotografia contemporanea
Dopo aver studiato fotografia al KABK Royal Academy of Arts Den Haag (NL) (2017) e Architettura allo IUAV di Venezia (2013), Marina Caneve sperimenta l’utilizzo della fotografia come strumento di osservazione autonomo all’interno di un processo di ricerca interdisciplinare.
Di seguito, ci racconta i suoi progetti, le sue aspirazioni:
Puoi raccontarci qualcosa delle tue ispirazioni? Su quali temi lavori più spesso?
Sono particolarmente interessata alla complessità e all’esplorare come la nostra conoscenza prende forma; al modo in cui percepiamo le cose e i nostri tentativi di cogliere le cose. E, di nuovo, i tentativi di cogliere cose che da un lato apparentemente sembrano troppo grandi e complesse da essere comprese, dall’altro cose che sono così prominenti che gli uomini faticano ad adattarvisi.
In qualche modo posso dire che trovo ispirazione nelle cose che non capisco e, in questo senso, vedo la fotografia come un modo per dargli forma. Sono estremamente affascinata dall’opposizione tra il magico e lo scientifico, per il luogo dove la poesia si intreccia con i fatti concreti. Confrontandomi con questi due punti di vista, considero ogni progetto come un tassello di un mosaico di più ampio che forse non arriverà mai a compimento e che mi porta a confrontarmi costantemente con punti di vista e direzioni diverse.
Non è un caso che mi renda conto che, più che i discorsi lineari, sono le divagazioni ad affascinare e ispirare il mio lavoro.
Come vedi la tua relazione con il medium? Come usi la fotografia per esprimere il tuo lavoro artistico?
Lavorare ad un progetto per me significa sviluppare un processo che va più o meno dalla fonte alla poesia, al ritmo, allo spettatore, non necessariamente in quest’ordine. Quello che voglio dire è che pensare a un’opera significa tenere a mente una serie di variabili, in cui il risultato finale trova un equilibrio/ritmo soprattutto tra ricerca e intuizione/poesia.
Il mio atteggiamento nei confronti della fotografia, empatico ma non pietistico, risente dell’influenza di una mostra che ebbe luogo alla Tate nel 2003 e che negli anni continua ad accompagnarmi ed affascinarmi.
La mostra aveva per titolo “Cruel and Tender” e metteva in discussione lo spazio della fotografia documentaria nell’arte contemporanea. In uno dei saggi si parla dell’atteggiamento di tender cruelty di Walker Evans, per il quale la fotografia doveva essere empatica ma disincantata in perfetto bilanciamento tra impegno sociale e alienazione. In questo senso mi interessa una fotografia con un forte grado di attaccamento alla “realtà”, empatica ma disincantata; una fotografia che esplori l’ambiguità che si trova a cavallo tra fatti concreti e potenziali momenti di indeterminatezza.
Un’altra cosa fondamentale è che tendo sempre a lavorare con un approccio interdisciplinare, sia nella ricerca preliminare che nell’output.
Hai qualche progetto in corso (o più recente) che vorresti condividere con noi?
In generale preferisco dividere il mio tempo tra più progetti diversi anche se in certi momenti una cosa può prendere il sopravvento sulle altre. Questo mi aiuta a prendere distanza da quello che sto facendo.
Dopo aver stampato il libro Are They Rocks or Clouds?, pubblicato da Fw:Books nel 2019, ho iniziato a concentrarmi di nuovo su un progetto iniziato nel 2015 sulla libertà di movimento in Europa. Per avvicinarmi a questo tema, ho cercato una voce che mi aiutasse a esprimere le mie riflessioni ma soprattutto le mie perplessità su questo tema. Ho trovato un ingresso scoprendo, e in parte attraversando, un’infrastruttura di libertà: una rete ecologica di ponti per gli animali pensati per preservare, anzi favorire, la biodiversità in Europa. Cito questo progetto perché, fin dai primi tentativi di visualizzazione del tema, è stato un progetto estremamente interdisciplinare sia nella ricerca sia nella forma. In questo progetto, come in Are They Rocks or Clouds? infondo, ho cercato di immaginare degli scenari per il futuro. Questo progetto tocca temi molto complessi che per me, pur rappresentando uno scoglio, stanno diventando sempre più importanti.
Parallelamente, un anno fa, ho vinto un bando promosso dal Museo della Montagna di Torino per lo sviluppo di un nuovo progetto sull’immagine della montagna. È stata una grande sfida e mi sono concentrata sulle contraddizioni. Il lavoro che ho realizzato, Entre Chien et Loup, ora parte della collezione del Museo, si confronta con una serie di riflessioni sull’ambiente, sulla memoria culturale dei luoghi e gli scenari possibili, avvalendosi di stereotipi che ho trovato nell’archivio del Museo stesso. Definirei quindi Entre Chien et Loup come una stratificazione di esperienze diverse, dove si sviluppa un percorso di ingressi, finestre, spioncini metaforici, che invitano via via lo spettatore a passare da un’idea all’altra, rimettendo in discussione molteplici declinazioni, dal gioco alla morte, dalla quotidianità alla crisi climatica. In particolare nell’allestimento del progetto che ho potuto sperimentare negli scorsi mesi al Museo Montagna, siamo costretti a muoverci in modalità esplorativa e a confrontarci con incomprensioni, conferme ed epifanie, tessendo una rete di relazioni tra discipline e modi di guardare, invertendo e confondendo i ruoli tra archivio e paesaggio, costruzione e ritrovamento, scientifico e immaginario.
Abbiamo dovuto affrontare molte sfide quest’anno. Come vedi questo momento per l’arte? Sta cambiando la tua pratica?
Sì e no. Durante il primo lockdown e successivamente mi è stato chiesto di lavorare a delle mostre che riflettessero su questa specifica condizione e ho finito per rendermi conto che non ero tanto interessata alla pandemia in sé, ma piuttosto alle sue origini, ovvero al nostro rapporto con l’ambiente. In realtà penso che questo tema fosse già molto presente nel mio lavoro prima della pandemia stessa. Forse l’unica cosa a cui continuo a credere fermamente è che gli artisti non possano considerare l’opzione di non essere coinvolti in ciò che accade intorno a loro, in qualsiasi momento. Ogni tema poi tiene in sé infinite possibilità di restituzione.
Per esempio a Reggio Emilia per la mostra Spazio Libero curata da Daniele de Luigi e Ilaria Campioli e a Photo Open Up a cura di Carlo Sala, ho esposto un’opera, ‘The Shape of Water Vanishes in Water’, che è stata realizzata nel 2018 e che in parte sto espandendo, che tocca i temi della ricerca dell’equilibrio durante l’adolescenza e l’ambiente a rischio.
Giorgio Agamben in una lezione all’Università IUAV di Venezia fece una riflessione sul ruolo degli artisti, i quali non sono coloro che vivono perfettamente a loro agio nel loro tempo, quanto piuttosto coloro che vivono un continuo senso di indeterminatezza, sentendosi sempre un po’ “spostati” e in continua inquietudine tra il proprio tempo ed il futuro. Questo è molto importante per me, soprattutto riflettendo su quanto sta succedendo con la pandemia e sul modo in cui confrontarci con la nostra pratica.
Cosa ti aspetti da questa esperienza come talent di Futures?
Futures è arrivato in un momento abbastanza particolare della mia carriera. Nel 2019 è stato pubblicato il mio primo libro d’artista, Are They Rocks or Clouds?, e dopodiché mi sono trovata totalmente immersa da un lato in attività legate al libro e a questo progetto, dall’altro in nuovi progetti su commissione. Con Futures ho deciso di prendere una boccata d’aria fresca e sfruttare questa opportunità per mostrare progetti che si trovano ancora in una fase molto esplorativa.
Da un lato vedo Futures come una vetrina, dall’altro sento che mostrare solo lavori conclusi non sia il fine di questo progetto. Penso che i progetti finiti debbano essere uno “strumento di traino” per poter presentare e discutere progetti non ancora conclusi e per i quali posso davvero approfittare del supporto di questa piattaforma. A questo punto spero che questa esperienza possa arricchire la mia rete e mi porti verso nuove esperienze fisiche al di fuori dei sentieri che sono abituata a percorrere.
Intervista realizzata da FUTURES PHOTOGRAPHY
Maggiori approfondimenti sul suo lavoro sono disponibili cliccando sui seguenti link:
https://americansuburbx.com/2020/07/marina-caneve-are-they-rocks-or-clouds.html
http://atpdiary.com/new-photography-marina-caneve
Marina Caneve (Belluno, 1988)
Dopo aver studiato fotografia al KABK Royal Academy of Arts Den Haag (NL) (2017) e Architettura allo IUAV di Venezia (2013), Caneve sperimenta l’utilizzo della fotografia come strumento di osservazione autonomo all’interno di un processo di ricerca interdisciplinare. Con il progetto “Are they Rocks or Clouds?” ha vinto Premio Giovane Fotografia Italiana a Fotografia Europea – Reggio Emilia (2018) e il Photobook Dummy Award a Cortona On The Move (2018). Il libro è stato pubblicato da Fw:books e OTM (2019).
È tra i vincitori del bando Atlante Architettura Italiana promosso dal MUFOCO e dal MiBAC (2019). Nello stesso anno è tra i selezionati del bando iAlp promosso dal Museo Nazionale della Montagna (Torino), per cui ha realizzato un progetto inedito che è entrato a far parte della collezione del Museo. Nel 2018 è stata invitata a prendere parte alla residenza d’artista Docking Station (Amsterdam) per sviluppare “Bridges are Beautiful”, una ricerca ancora in corso sulla libertà di movimento in Europa. Nello stesso anno le è stato commissionato un progetto per la nona edizione di Cavallino Treporti Fotografia. Il progetto, con un testo in sei brevi capitoli di Taco Hidde Bakker, è stato pubblicato nel catalogo “The Shape of Water Vanishes in Water”, A+Mbookstore edizioni (2018). Dal 2019 è anche docente al Master IUAV in Photography (Università IUAV, Venezia).