Antonio Ottomanelli: Kabul + Baghdad
27 gennaio – 13 marzo 2016
La mostra
La personale, allestita all’interno del corridoio monumentale del Centro, raccoglie una selezione di immagini dai due diversi progetti del reporter italiano, Big Eye Kabul e Mapping Identity. Le opere, realizzate sul campo di scenari cruciali come l’Afghanistan e l’Iraq, evidenziano la necessità e l’urgenza di rivolgere agli accadimenti e a quei luoghi uno sguardo più ampio e opporre alla distruzione un gesto di ricostruzione. Soggetto principale dei lavori è lo spazio urbano: Ottomanelli, che ha una formazione in Architettura, approda alla fotografia come strumento per indagare il territorio, non tanto nei suoi aspetti paesaggistici o urbanistici, ma come indicatore delle dinamiche sociali e delle tensioni geopolitiche nelle aree di conflitto. Le opere in mostra, risultato del suo lavoro indefesso nei territori dell’Afghanistan e dell’Iraq, ribaltano la prospettiva e la sensibilità di lettura dei soggetti fotografati. Non c’è un’angolazione visiva certa, l’osservatore guarderà al cielo, agito dal dirigibile, e si muoverà nel reticolato urbano, in un viaggio eziologico e di riflessione dei fenomeni.
A Kabul Ottomanelli interviene sulla prospettiva: BIG EYE KABUL è proprio questa inversione, dove lo sguardo si sposta dal basso verso l’alto, seguendo un dirigibile americano.
“ Soltanto a Kandahar City ce ne sono almeno otto e almeno altrettanti nel resto della provincia; si dice che gli insorgenti li chiamino ranocchie perché i loro grandi occhi non smettono mai di guardare. A Herat li chiamano svergognati perché scrutano indiscriminatamente le azioni di ogni persona, uomo o donna, dall’alto. Nella provincia di Helmand spesso vengono soprannominati Milk Fish: ogni giorno nuotano languidamente nell’etere spinti dalle loro piccole pinne, e la pelle lattiginosa brilla contro il blu del cielo. A Herat, durante le torridi notti dell’estate, le coppie non fanno più sesso sotto le stelle sui tetti delle case.
Antonio Ottomanelli ha fotografato a Kabul i dirigibili americani che sorvegliano con i loro sensori elettronici quasi tutte le città afghane – lì li chiamano Big Eye. Attraverso una serie di semplici e inquietanti immagini osserva l’osservatore, investiga l’investigatore mentre percorre la città. Per una frazione di secondo i ruoli si invertono.
I generali non li amano soltanto perché costano una frazione dei Predator: sostengono che i loro enormi corpi turgidi siano un deterrente contro azioni insurrezionaliste. Giorno dopo giorno galleggiano inerti sopra le città afghane come una minacciosa flotta di panopticon in rete. Soltanto le più gravi intemperie sono in grado di interrompere la loro paziente vigilia. Si dice che quando arrivano le tempeste e gli operatori sono costretti a riavvolgere i cavi, trovino i loro involucri di tessuto crivellati da centinaia e centinaia di piccoli fori di pallottola.”
A Baghdad, invece, Ottomanelli lavora sulla dimensione identitaria: con MAPPING IDENTITY – BAGHDAD gli studenti universitari sono chiamati a ricomporre una mappa attendibile della città, attraverso la loro memoria ed esperienza diretta. Il fotografo da fabbricante di documenti e atti di denuncia si trasforma così in investigatore e istigatore all’azione civile.
Baghdad ha sofferto ingenti danneggiamenti nel corso degli ultimi decenni. In particolare, tra marzo e aprile del 2003 la città è stata pesantemente bombardata dalle forze statunitensi, che l’hanno successivamente occupata con la deposizione di Saddam Hussein. Da allora la struttura urbana ha subito numerose modificazioni, ma nessuna di queste è più stata sistematicamente censita e registrata. L’ultima pianta ufficiale di Baghdad risale infatti al 2003 ed è stata tracciata dall’esercito americano per scopi militari e strategici.
Mapping Identity è un tentativo di colmare questo vuoto. Realizzato nel corso di un workshop con alcuni studenti d’arte dell’Università di Baghdad, il lavoro si compone di una serie di mappe parziali disegnate dagli stessi studenti su sollecitazione di Ottomanelli che li ha guidati in un percorso di ricostruzione topografica sulla base della loro esperienza diretta. Il risultato è una serie di quartieri interamente ridisegnati da chi li abita e li frequenta, dove i segni neri costituiscono il passato prebellico e quelli rossi tutto ciò che è cambiato ed è stato successivamente integrato. L’esperienza diretta e quotidiana si innesta così sul corpo astratto della mappa, dando vita ad autentiche “istantanee dell’ordinario, una sorta di ‘ritratto giacomettiano’, dal momento che Baghdad viene tenuta nascosta”.
Antonio Ottomanelli
Nato a Bari nel 1982, Antonio Ottomanelli studia Architettura a Milano e Lisbona. La sua formazione lo porta a interessarsi alla fotografia come strumento per indagare il territorio, non tanto nei suoi aspetti paesaggistici o urbanistici, ma come indicatore delle dinamiche sociali e delle tensioni geopolitiche nelle aree di conflitto.
Sempre alla ricerca delle motivazioni profonde delle problematiche che determinano gli equilibri globali o semplici fatti di attualità locale, Ottomanelli non fotografa gli eventi, che si tratti di guerre, rivoluzioni o manifestazioni, ma i segni tangibili delle tensioni alla loro base.
Entrambi i lavori presentati in questa mostra, realizzati sul campo di scenari cruciali come l’Afghanistan e l’Iraq, evidenziano la necessità di ampliare lo sguardo e opporre alla distruzione un gesto di ricostruzione. A Kabul lo sguardo si sposta dal basso verso l’alto seguendo un dirigibile americano. A Baghdad gli studenti universitari sono chiamati a ricomporre una mappa attendibile della città. Da fabbricante di documenti e atti di denuncia, il fotografo si trasforma così in investigatore e istigatore all’azione civile.
Il lavoro di Antonio Ottomanelli è stato presentato nell’ambito di numerosi festival e istituzioni internazionali a Berlino, Arles, San Paolo, Dallas, Holon e Amman. Ha esposto in mostre personali e collettive in Italia e all’estero. Nel 2013 la sua prima personale, Collateral Landscape è stata organizzata dalla Triennale di Milano, a cura di Joseph Grima. Ha partecipato alla XIX Mostra Internazionale di Architettura di Venezia e alla prima Biennale del Design di Istanbul. É curatore del volume The Third Island, pubblicato nel 2015 da Planar Books, primo di una serie dedicata all’osservazione dell’impatto delle grandi opere sui cambiamenti territoriali e sociali.